Alla cortese attenzione dei sedicenti “oppressi” della nostra scuola, e del loro paladino

Mettetevi comodi che la prendo larga.
Qualcuno scriveva perché credeva che, in effetti, un problema messo per iscritto è un
problema risolto per metà.
Qualcuno scriveva “perché non sembri, in tutto questo lavorare, che io solo non faccia nulla”,
come Diogene di Sinope che, per non rimanere inerme dinanzi a un mondo che va a rotoli,
non trova di meglio da fare che rotolare la sua botte, invano.
Qualcuno – ma soprattutto qualcuna, ma soprattutto io – scriveva perché da piccola aveva
letto Piccole Donne.
Qualcuno scriveva perché lo aveva imparato a scuola.
Qualcuno scriveva nonostante lo avesse imparato a scuola.
Qualcuno scriveva perché se no stava sempre incazzato e non capiva perché.
Qualcuno scriveva perchè quale sarebbe l’alternativa, esattamente?
Qualcuno – più specificamente Edmond Jabès – scriveva per allungare la sua solitudine.
Qualcuno scriveva per essere letto. Non erano tanti, ma qualcuno c’era.
Qualcuno scriveva perché leggeva, e consumare senza creare prima o poi fa uscire di testa.
Qualcuno scriveva perché sapeva cosa sentiva, o cosa provava, poi tentava di scriverlo e,
costretto a tradurlo e incasellarlo nel linguaggio logico delle frasi complesse e delle
subordinate, finiva per scoprire anche cosa pensava e, infatti,
qualcuno scriveva per trovare senso; qualcuno per crearlo: non l’ho ancora capito, se le parole, così come il tempo, sono una scoperta o un’invenzione, ma qualche volta, nei giorni
migliori, sembra che l’angelo sia già nella carta, e non resti che liberarlo.
Qualcuno scriveva perché se non sono capace di scriverlo non sono capace di pensarlo e
se non sono capace di pensarlo e lo sto pensando vuol dire che l’ha pensato qualcun altro
per me, e io l’ho preso per buono, e non è forse questa la definizione di “indottrinamento”?,
pensare cose che non hai pensato, che ha pensato qualcun altro per te, e tu non ti sei preso
la briga di metterle in discussione.
E non è forse esattamente questo che hanno fatto i “sedicenti oppressi” di cui sopra,
marginalizzati dalla prepotenza di un sistema che non gli è mai stato precluso ma del quale
non hanno mai provato a fare parte?
Qualcuno scriveva cose che, secondo me, non stanno nè in cielo nè in terra, ma il fatto
stesso che le scrivesse significa che gli stavano a cuore e che voleva discuterne, e io, con
queste persone, sarei disposta a discutere fino a perdere la voce, a scriverne fino a farmi
sanguinare i polpastrelli, anche se dicono e scrivono cose che, per me, non stanno nè in
cielo nè in terra, anzi: proprio per questo.
Qualcuno non scriveva. Qualcuno non parlava. Qualcuno non aveva mai provato a scrivere
o a parlare, ma si era autoconvinto di essere stato silenziato. Qualcuno non aveva mai
provato a scrivere, o a parlare, ma si lamentava di chi invece lo faceva.
Perchè se tratti la cultura come territorio da conquistare e occupare piuttosto che come
spazio fluido, fertile proprio perché condiviso, fatto di dialettica, di incontro e scontro, non
solo lecito ma necessario, tra idee contrastanti, allora è impossibile concepire qualsiasi
espressione culturale, qualsiasi scrivere e qualsiasi parlare (assemblea, lezione, conferenza,
articolo, volantino…), senza interpretarla alla luce di questa economia di guerra binaria e
granitica. Così anche la scuola diventa luogo di trincea: se non sei con me sei contro di me, ogni attacco è legittimo e l’obiettivo – in teoria comune – di scrivere e descrivere la realtà per
renderla leggibile, comprensibile e, nei migliori dei casi, un pochino migliore, lascia il posto a
battaglie ideologiche combattute con lo scopo esclusivo di cogliere in fallo il proprio nemico
ideologico (e non, eventualmente, avversario).
E il linguaggio di questi attacchi non può che rifletterne le intenzioni: non è quello logico,
rigoroso, e soprattutto onesto della dialettica e delle argomentazioni, ma si risolve – e
degenera – in slogan dogmatici e populisti, più a loro agio sulle pareti dei muri e tra i post di
Facebook che nelle scuole e tra le pagine dei giornali; più interessati ad imporsi sulla realtà
che a interpretarla.
E a noi non restano che questi pensieri, organizzati in frasi complesse perché i valori
fondanti e fondamentali di tutto ciò che conosciamo – la Libertà di Espressione, la Libertà di
Pensiero, la Libertà di Parola, la Pluralità delle Idee – per non cadere vittima di saturazione
semantica, simboli a taglia unica, dimentichi di ciò che simboleggiano, meritano sintassi,
anzi: ne hanno disperato bisogno. Solo così possiamo contrastare l’assurda ipocrisia di
pronunciarsi in difesa della pluralità delle idee auspicandosi, al contempo, la completa
messa al bando di determinate idee dagli spazi pubblici in cui si crea e si diffonde cultura, in
primis la scuola. L’assurda ipocrisia di chiamare “indottrinamento” ciò che è
approfondimento, dibattito, confronto democratico e studio, e “pluralità delle idee”
l’imposizione di opinioni senza l’onere dell’argomentazione: rifiutando di scrivere articoli o di
prendere la parola, ma rifugiandosi in scritte anonime e accusatorie, o tra le braccia di
personaggi che strumentalizzano ai propri fini il fermento culturale e politico di un ambiente
educativo con il quale non hanno niente a che fare, insultandone innanzitutto gli studenti.
Ed è proprio agli studenti che mi sto rivolgendo: agli “oppressi”, agli “emarginati”, agli
“indottrinati”, a coloro che, indignati dalle parole di Gobetti, non hanno voluto saperne di
scrivere un articolo al riguardo, pur sotto continue richieste e sollecitazioni dalla redazione; a
coloro che non si sono mai sognati di prendere la parola a quelle stesse assemblee da cui
pur si dicevano (o meglio: venivano detti) scandalizzati; a coloro che continuano a
denunciarsi silenziati, pur non avendo mai provato ad esprimersi.
Continuo a sentire parlare di voi, non ho mai sentito parlare voi. Comincio a pensare che
non esistiate.
La prossima volta che vi sentite “oppressi” o “indottrinati”, provate a scrivere perchè. Provate
a scrivere. Provate, per una volta, a partecipare direttamente a questo dibattito pubblico da
cui tanto vi sentite minacciati (Buh!).
La carta è più esigente dei muri, ma la dialettica alla pari è più fertile di questi giochini di
potere chiaramente impari dietro i quali continuate a nascondervi.
Fornendo, paradossalmente, la prova che siete voi, e non noi, quelli incapaci di produrre e
articolare pensiero critico e strutturato.
Siete voi gli indottrinati.
E a indottrinarvi non è chi pensate voi.