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Berkeley Square

Data: 27 Maggio 2025

Tag: Racconti

Di: Andrea Brizzi

Dal diario dell’ARP warden Ambrose Wilson, 20 settembre 1940.

“Cazzo Wilson, viene notte!”

Queste sono le prime parole che ricordo di ieri sera. George Smith generalmente è un uomo tranquillo, ma non riesco ad incolparlo per aver perso la pazienza. Erano state delle settimane orrende dopo il raid che aveva colpito Londra la notte del sette e a noi dell’ARP, il servizio per la sicurezza antiaerea, la sorte aveva riservato un destino tremendo quasi come quello dei bombardati: la privazione di ogni umanità. Non mi riferisco solamente alla visione straziante delle macerie, delle mani che sporgono tra i mattoni a gesticolare un ultimo saluto o agli sguardi delle famiglie che, perso un figlio a Dunkirk, vedevano sparire anche l’altro nella comodità della propria casa di Putney, no, mi riferisco anche a come eravamo trattati noi. 

Siamo macchine, anzi, piccoli ingranaggi costretti a lavorare senza sosta, senza olio, senza cambi. Noi strappiamo alla sepoltura delle macerie i corpi di una famigliola e i tedeschi hanno già buttato giù tutto il quartiere circostante con i suoi abitanti. Facciamo quello che facciamo per aiutare il prossimo, ma non per questo riusciamo a sorridere o a sentire di stare facendo qualcosa di giusto, né ricordo l’ultima notte in cui ho dormito. Dove non arrivano le bombe a svegliarci arrivano gli incubi e le speranze, una cosa ancora peggiore.

“Vai piano Smith, sono stati giorni difficili per tutti. Dai ragazzo, in piedi.”

Herbert Brown è del nostro gruppo di volontari sicuramente il più autorevole e, anche se non ci sono delle vere e proprie gerarchie nell’ARP, è come una sorta di capitano. George non ce la aveva nemmeno con me; mi ha subito chiesto scusa e io gli ho detto di non preoccuparsi. Quella sarebbe stata una bella serata per tutti.

Mi ero chinato a guardare un fiore che spuntava ai piedi di un albero a St. James Square. Può sembrare infantile, ma mi ha ricordato casa mia, in Cornovaglia. 

Come mi mancava Dover! Le scogliere bianche, il cielo stellato ed i prati che fanno da sfondo al piccolo podere di papà erano le uniche immagini che tenevo strette al cuore in quei giorni e che in qualche modo mi aiutavano ad andare avanti; ma soprattutto di Dover mi mancano gli usignoli ed il loro canto. Un londinese potrà dire che è fastidioso, ma io non sono un londinese. Il canto dell’usignolo è la cosa più spontanea e dolce al mondo, specialmente se ne vivi il ricordo tra le grida e le esplosioni del blitz, ed io non aspettavo altro che tornare a casa e sentirlo ancora sotto il mio portico. Ma per fortuna sarei tornato presto a casa: dopo quelle settimane infernali il chief warden mi concedeva un periodo di licenza, quella era l’ultima serata prima di un momento di quiete. 

E che serata che sarebbe stata! Avevano bombardato la caserma locale e ci facevano cenare al Ritz, in quanto non c’era attorno a St. James street nessun’altro salone capace di ospitarci tutti. 

“Io voglio delle ostriche” diceva George “avranno tempo di servircele prima che bombardino anche questo baracchino, no?”

“Certo Smith, ci daranno delle ostriche, cortesia della gentry” interveniva ironico Herbert “poi dello Champagne, cortesia del comando tedesco in Francia, e poi del caviale, cortesia dell’imperatore giapponese. No, ci daranno delle razioni. Siamo al Ritz solo perché non hanno più dove metterci, e cercheremo di sfamarci con le razioni. Come il re.”

“Oh il re! Povero Birdie, se la passa male a Buckingham Palace!”

“Sua maestà è ancora a Londra e sopravvive con le stesse razioni dei suoi compatrioti e casa sua, che sia un palazzo o una catapecchia, è stata bombardata come tutte le altre. E lui rimarrà lì, finché avrà fiato in gola, perché Dio…” e qui Herbert venne interrotto dal pianto di una bambina.

Aveva due trecce bionde che cadevano su un orsetto di peluche impolverato e usciva da un vicolo alla nostra sinistra, strillando come se fosse l’unica cosa che sapeva fare. 

“Deve essersi persa dopo l’ultimo bombardamento” osservò George.

“Molto probabilmente è così” confermò l’altro, dimenticatosi improvvisamente del re.

Eravamo quasi arrivati ma io mi offrii di cercare i genitori della bambina. I due mi sorrisero e promisero di tenermi un posto a tavola.

Li salutai con un cenno e presi in spalla la piccola; era sporca di polvere tanto da sembrare uno dei piccoli spazzacamino della Londra di Dickens, ma poco importava. Il pianto cominciò a lasciare spazio ai singhiozzi, e questi piano piano ad alcune parole: “Berkeley Square”, diceva, “mamma è a Berkeley Square”.

Non era troppo lontano e ci incamminammo. Ci faceva compagnia il cielo stellato che si vedeva da Berkeley street; i rimasugli di vecchi edifici e i palloni controaerei si innalzavano verso di esso, ma non potevano né toccarlo né oscurarne la vista. Nessuno disturbava la quiete di quella notte; il coprifuoco aveva il piacevole effetto collaterale di garantire il più assoluto silenzio e quei due o tre membri del servizio civile che si dirigevano verso il Ritz non riuscivano a proferire parola. Si vedevano alcune donne sporgersi a stendere i panni, sorridendo dal davanzale di una finestra aperta dalla Luftwaffe e alcuni uomini che accendevano la propria pipa in una camera che era diventata un terrazzo, ma nessuno di loro osava disturbare quel silenzio; al massimo sorridevano e contemplavano, come se le bombe li avessero alleggeriti e resi umili a tal punto da poter finalmente apprezzare una notte tranquilla. 

Arrivammo appena oltre Berkeley Square e lì vedemmo una donnetta che sfidava il coprifuoco; aveva la fede al dito, ma non c’era nessuno ad accompagnarla. Gli occhi della bambina si illuminarono sotto quella faccia grigia e, dopo avermi abbracciato, corse verso di lei.

“Oh Dio, Eunice!” esclamò la signora “pensavo fossi rimasta sotto le macerie!”

Le due si abbracciarono con una tenerezza tale che, anche volendo, non riesco a descrivere. Le braccia magre e graffiate della madre si avvolgevano attorno alla figlia e la stringevano, la stringevano con la poca forza che rimaneva in loro e la piccola, con le guance finalmente pulite dalle lacrime, tentava di ricambiare.

“La ringrazio, oh Dio la ringrazio, io non…”

“Non si preoccupi signora” sussurrai io, portando la mano all’elmetto “c’è il coprifuoco, torni a casa e cucini qualcosa a sua figlia.”

“Dio vi benedica. Voi non siete uomini – questa frase mi toccò particolarmente – ma angeli. Voi volontari siete degli angeli vestiti di stracci. Sì, degli angeli.”

“Vada signora; faccio solo il mio, come tutti.”

Le due figure svanirono nella notte ed io, indeciso se sorridere o piangere, decisi di passare per Berkeley Square prima di dirigermi al Ritz. Avevo bisogno di prendere un po’ d’aria.

Voltai per entrare nel parchetto, miracolosamente risparmiato dalle bombe, ma battei la spalla con una ragazza che stava uscendo. Fu un urto piuttosto violento, e mi strappò la spilla dell’ARP. 

Mi chinai per raccoglierla, pronto a sgridare la donna per non stare rispettando il coprifuoco, ma la sua mano fu più veloce e mi restituì quel pezzetto d’argento sorridendo. 

Il mio occhio cadde su di lei prima che sulla sua mano: era una ragazza giovane, non più di diciannove anni, come me. I suoi capelli castani spuntavano da un berretto militare e cadevano su una divisa kaki, quella del WVS, il servizio volontario femminile. Aveva un volto comune e pure così strano, uno di quelli che vedi tutti i giorni e che non vedi mai veramente finché non ti avvicini. Questo, mosso da un leggero sorriso, era illuminato dalla luna di Londra, riflessa nei suoi occhi. Non so se le avrei mai parlato fuori da quella circostanza, ma il fatto che fosse una mia collega in qualche modo mi ispirava una grande ammirazione nei suoi confronti.

Io non riuscii a prendere la spilla dalla sua mano, e lei non riuscì a ricordarmi che dovevo rimettermela addosso. Nessuno di noi due aveva più la forza di parlare, ma non penso servisse neanche dire qualcosa. Rimanemmo lì a sorridere, finché, con un filo di voce, indicai una panchina.

“Di qua.”

“Sì, di là.”

Ci sedemmo e con uno sforzo incredibile delle nostre anime stanche tornammo umani, per scambiarci qualche parola. E quelle poche parole, quelle domande imbarazzate sulle generalità e sulla provenienza lasciavano pian piano la penna a quelle sulle passioni e sulla vita, andando a scrivere il romanzo di una nuova conoscenza.

Vera, Vera Sherwin. Quello il suo nome. Era una ragazza di Hackney, appena diciottenne, entrata nel servizio volontario per volere del padre, come me. Io sono miope, non posso rendere servizio al mio paese con una mitragliatrice e quindi sono stato costretto a farlo con una pala; lei non poteva imbracciare un fucile per la sua nascita, ma almeno poteva aiutare a nutrire il reparto logistica delle scartoffie di cui era tanto ghiotto.

Allora il soggetto della conversazione cominciò a spostarsi sulle nostre speranze per il futuro e smettemmo per un attimo di guardarci negli occhi. 

“Io voglio solo tornare a casa” e cominciai a dipingere con le parole la Cornovaglia “voglio alzarmi la mattina e vedere la Manica. Voglio alzarmi la mattina e sentire gli usignoli, voglio respirare l’aria dell’Atlantico.” All’improvviso quella risposta sembrava non soddisfarmi più.

“Io non lo so” sussurrò con quella sua voce acuta ma dolce “vorrei dire che voglio solo essere felice, quindi dovrebbe finire la guerra. Ma non ne sono così convinta.”

“Che la guerra finisca? Beh, che Churchill entri a Berlino da vincitore o da sconfitto la guerra finirà in ogni caso.”

“Non intendevo quello. Non sono più convinta che serva la fine della guerra.”

“Perdonami Vera, non capisco.”

E qui nessuno dei due poté più parlare perché non c’era nulla da dire. Mi cadde tra le braccia e ci baciammo. Poi ci baciammo di nuovo e poi rimanemmo tra le braccia l’uno dell’altra per baciarci ancora finché i nostri cuori battevano come uno solo. 

La luna, quella vecchia luna che scivolava sopra al Tamigi sembrava non capire cosa stesse succedendo, e ci spiava attraverso le chiome degli alberi, curiosa e quasi sbigottita da quei due giovani che fino a poco fa non si conoscevano. Gli angeli cenavano al Ritz, ed io avevo trovato il mio di angelo; non potevo più nulla davanti a lei se non amare e tornare a vivere dopo quelle settimane.

Allora appoggiai la mia testa sulle sue gambe e lei mi sorrise. 

Il silenzio, fino allora disturbato solo dalle nostre poche parole, svanì dolcemente: un usignolo aveva cominciato a cantare a Berkeley Square. Quel piccolo esserino era uscito dal nulla, sfidando la realtà attorno a lui e, per la prima volta in mesi, ascoltai nuovamente il suo canto.

Saremo rimasti così un’ora o poco più, uno appoggiato all’altra. Ormai potevo dire addio alla cena al Ritz e lei aveva rimandato fin troppo il ritorno a casa e la sua, di cena. 

Volli accompagnarla fino ad Hackney; delle villette a schiera di quel quartiere la sua, grigia come la cenere, era una delle poche a non essere stata distrutta. Non ci furono molte chiacchiere sul tragitto. Gli sguardi erano fin troppo eloquenti.

Dopo quella serata non poteva non farmi entrare e allora, liberati dal peso delle insegne, cenammo assieme. Non riuscimmo a scaldare i barattoli di zuppa che conservava in cantina siccome il raid aveva portato via il gas al quartiere, ma la mangiammo cruda, come se niente fosse. 

Abbiamo passato insieme tutta la notte, ma non a letto; non volevo finire così quella giornata. Abbiamo passato tutta la serata assieme nel salotto, a discutere e guardarci. Suo padre era di stanza in Egitto, e sua madre era rimasta uccisa la notte del sette; non le rimanevo che io, il volontario di Berkeley Square. Voleva e non voleva piangere, e allora piansi io per lei; ciò la distrusse e consolò al tempo stesso, e le lacrime cominciarono a pulire il suo collo dai miei baci.

Frugai nel mobiletto sotto il grammofono e estrassi dalla povera collezione di suo padre un disco americano, I’m getting sentimental over you, inciso qualche anno prima. Lo misi su e, dopo il fruscio iniziale, cominciammo a ballare, e ballammo su quella melodia lenta e malinconica per tutta la notte. 

La mattina era sempre più invadente e minacciava di rubarci la gioia: era giunto il momento di andare. Baciai Vera un’ultima volta davanti alla porta di casa. Nessuno di noi disse nulla. Sapevamo dove trovarci, Berkeley Square, non appena sarei tornato a Londra.

Corsi verso la stazione di Paddington per non perdere il mio treno, e vi salii con ancora il fiatone. Mi resi conto solo allora che, tra il Ritz, Hackney e il mio vagone avevo attraversato avanti e indietro mezza città e che le mie gambe tremavano per la stanchezza. E avevano tremato per tutto il tragitto, semplicemente non me ne ero reso conto; i miei piedi erano così leggeri che mi sembrava di stare ancora ballando quel foxtrot che mi aveva privato del sonno.

Arrivai a Dover verso mezzogiorno, e da lì camminai mezz’oretta fuori dalla cittadina per arrivare a casa. Spalancai il cancelletto di legno sverniciato e aprii la porta. Arrivato finalmente qui immaginavo che avrei voluto lasciarmi tutto alle spalle, e pure ora che sto scrivendo mi rendo conto che non so più cosa voglio.

Le scogliere bianche sopra alle quali sono cresciuto ormai non mi dicono niente: sembrano più sporche dei muri bombardati di Hackney. Il mare non è diverso dalle macerie, anche lui mi mostra dei corpi morti, solo che si tratta di marinai ed aviatori e non più delle loro famiglie. 

Io sono solo, e non sento più nessun usignolo cantare.

27/05/2025|Categorie: Eureka|Tag: |