Sipario

Data: 25 Novembre 2022

Tag: Racconti

Di: Elena Mora

[Immagine: Edward Hopper, New York Movie]

Le luci sono soffuse, una lieve musica arriva dall’orchestra. Ci sono io, seduta su quella poltrona di velluto rosso, nella trepidante attesa che si apra il sipario.

Alzo gli occhi al cielo, mentre cerco di ricordare la storia di quell’eroina tragica che mi ha tenuto tanto col fiato sospeso. Quante prove, quante sofferenze ha dovuto affrontare! Quanto odio le è stato riservato e quanto amore ha donato! Una trama perfetta, sottile, raffinata e cruda al tempo stesso, una recita teatrale della durata di una vita. Tutto il dolore, tutta la fatica, tutti gli sguardi carichi di tristezza o di amore, in un turbinio di luci e ombre, prima che si chiuda per sempre il sipario.

La protagonista cadrà, sopraffatta dall’amore? La tragedia avrà compimento? Ci sarà un’altra chance? Uno spettacolo sublime, il teatro, un’arte, anzi, l’arte per eccellenza, le emozioni umane portate in scena. Le passioni e il dolore che ammutoliscono il pubblico. La tragica fine che fa scattare gli applausi.

Ecco. Le luci si spengono, si apre il sipario.

Ci sono io, il vestito bianco da sposa macchiato di rosso.

Ricordo che ero andata nel panico.

Non solo perché era la prima volta che succedeva – un uomo che ti vuole sposare difficilmente mostra la sua vera natura – ma soprattutto per il vestito. 

Bianco candido, come la coperta che mia nonna immancabilmente si trascinava dietro per casa. Ora chiazzato di rosso, il mio rosso, una rosa che stava perdendo un petalo dopo l’altro, senza posa.

Mi aveva fatto male. Mi faceva ancora male, ma spesso i mostri della mente sono più temibili di quelli del corpo. Ero terrorizzata che il rosso non venisse più via. 

Se mia nonna l’avesse scoperto, non l’avrei mai sposato. Non perché si preoccupasse per me, forse semplicemente perché si sentiva contraria a questo genere di cose. E io, io lo volevo sposare, lo volevo sposare e l’avrei sposato, perché lo amavo.

E lui amava me. Io lo sapevo, che mi amava. Era solo un po’ di sangue, quattro o cinque petali di rosa su un manto di neve.

Lavorai di nascosto tutte le notti, febbrilmente, finché, all’alba del grande giorno, non mi guardai allo specchio. Tenevo il vestito fra le mani tremanti.

Era pallido quasi come me. Dall’abito e dal mio volto era scomparsa ogni traccia di colore.

Mi sposai che faceva freddo: continuavo a tremare nel vestito troppo leggero e i pochi passi che mi separavano dall’altare mi parevano infiniti. Come se tutti i passi che facevo mi gridassero di tornare indietro, che ero ancora in tempo. E io ignoravo le loro urla, perché non sapevo che erano le mie.

Cinque anni sono passati, ferite molte di più.

Non l’ho mai detto a nessuno, ma ci ho pensato spesso.

Volevo fare l’eroina e andare alla centrale di polizia con il cuore in mano, il volto vuoto e gli occhi pieni di lacrime, a denunciare tutto il dolore che non volevo più subire.

Non l’ho fatto.

Dicono che l’amore è cieco: non è vero. L’amore ci vede benissimo.

È soltanto l’ennesima forma di egoismo.

Io l’ho scelto.

Io lo conosco.

Io so che non mi vuole fare del male.

Lui mi ama, io lo so.

Non posso essermi sbagliata…

Io non mi sono sbagliata.

Vedrai che non lo farà più. Vedrai che tutto si risolverà, vivrete per sempre felici e contenti.                                                                                                                                   

Quando ho capito che la mia non era una favola, che non avevo alcun potere speciale, ho iniziato a leggere Euripide, Shakespeare e Wilde. Ero un’eroina tragica, che sopportava mille peripezie e che commuoveva il pubblico, prima del colpo di scena finale.

Ero la protagonista di una storia scritta da altri, ero un’attrice e dovevo mettere in scena la mia vita. E mi ammiravo, da lontano, come seduta su una poltrona, a teatro.

Ammiravo la mia vita, mi stupivo ad ogni colpo di scena, tifavo per la protagonista e non vedevo l’ora di scoprire cosa sarebbe successo alla fine.

Ogni parola tagliente, ogni fiume rossastro che scorreva sulla mia pelle era la scena di uno spettacolo teatrale a cui assistevo. E provavo compassione per quella poverina, consapevole che non ero io. Io assistevo soltanto.

A volte questo mi ha salvato la vita. Mi ha impedito di parlare troppo, o troppo poco, mi ha impedito di abbandonarmi ai miei mostri. Ne avevo già abbastanza fuori per preoccuparmi di quelli dentro di me.

Vattene da questa vita! Questa non è la tua vita! Perché devi soffrire? Perché non puoi essere felice?

Ma io sono felice. Io ho una bellissima vita, abito in una villa al mare e ogni tanto vado a teatro per assistere alle peripezie di una giovane eroina.

Io non sono lei.

Lei non è me.

Non può essere.

La protagonista della mia vita frequenta abitualmente il pronto soccorso.                                 

 Non vorrebbe, certo, ma a volte il sangue è veramente troppo. O troppo poco.

A volte il dolore si fa così lancinante che pensa di non riuscire a sopravvivere fino all’indomani. E invece ci riesce sempre. Si trascina fino al pronto soccorso.                                                                         Anche se lui non vuole, lo fa lo stesso.

 

L’ha capito.

Mi è bastato uno sguardo, così come è bastato uno sguardo a lui.

So che dovrei trovare una scusa migliore. Troppe donne cadono dalle scale. Ma so anche che è l’unica cosa che abbia un senso, che mi sia venuta in mente. L’unica cosa che la mia fantasia impaurita potrebbe partorire.

E dunque, lui l’ha capito. Quanto avrà, quarant’anni? Cinquanta? Non sono mai stata brava a dare un’età…so solo che potrei essere sua figlia.                                                                                                                                                      

Mi tira il braccio rotto, me lo fascia con il gesso bagnato, mi dice di tenere ferma la garza bagnata sotto la palpebra viola. Sembra una violetta sbocciata in mezzo ad un campo arato e subito piegata dalla grandine.

Lo so che non mi crede. Forse dovrei cambiare pronto soccorso, ospedale, città, universo.

Quale universo? Sono rimasta una bambina? Non ho una bacchetta magica con cui far scomparire tutto ciò che non va. Sono io che dovrei scomparire?                                                                           

Ma non fiaterò. Non posso. Innanzitutto, perché di lui non mi fido. Non conosco nemmeno il suo nome. Sono certa che gli verrebbero in mente certe assurde idee, come arrestare mio marito, il mio meraviglioso marito, il mio amore… Oh, lui non sa tutto; non sa che ci amiamo alla follia, che siamo l’uno la casa dell’altro. Non sa che lui ha ragione a comportarsi così: nessuno gli ha mai dato l’amore che meritava e ora non sa come distinguere amare dall’odiare, il bene dal male, la passione dalla rabbia. Io sono paziente, io gli insegnerò. Se non gli dimostro io un po’ d’amore, chi potrà…?

Penso che il medico mi abbia detto qualcosa. Non ho sentito; non lo so. Forse non ho voglia né forza per rispondergli.

Ho un bagaglio pesante sulle spalle. Lui non lo vede, ma sa che c’è. Per quanto tempo ancora dovrò portarlo da sola? Se solo mi aiutasse a sostenere il peso per un tratto di strada…

Non voglio che mi giudichi, non voglio che mi salvi. No…

E allora mi allontano a testa alta, sotto il suo sguardo triste.

Appena svoltato l’angolo, scoppio in lacrime.

 

L’orchestra ha stonato: una nota più acuta è arrivata dal golfo mistico.                                                                       La protagonista è rannicchiata a terra, all’ombra di un uomo gigantesco.

Trattengo il respiro.

 

Mi ha preso, urlando, gridando, mi sta accusando, e io lo odierei, lo odierei, lo odierei con tutta me stessa, perché è orribile, perché mi ucciderà, un giorno, lo so che mi ucciderà…eppure lo amo. Non posso odiarlo.

Ha appena congedato l’assistente sociale. Sono certa che l’abbia mandata quel medico. Come si è permesso di entrare nella nostra vita? Come ha potuto farmi questo?

Quello che accade a me è mio e soltanto mio. Non ho bisogno di qualcuno che mi compatisca.

Voleva aiutarmi? Voleva aiutarmi? Ecco il risultato, ecco…

Mi accusa, mi accusa, alza la voce, ma non sono stata io, è stato il medico, io non l’ho denunciato, ti prego, non alzare le mani, no, no, no… 

Mi abbraccia. Mi sorride. Mi chiama “principessa”. Allora non si è arrabbiato! Allora vedi? Vedi che dopo tutto questo tempo è tornato? Il mio principe azzurro è tornato! Io lo sapevo, l’ho sempre saputo. Del resto, mi sono innamorata di lui. Non potevo essermi ingannata.                                                 

Povera protagonista accecata. Hai così tanto bisogno di fidarti del mondo da credere anche alle sue parole? Lui non è tutto il mondo, sai…forse tu credi di sì, ma non è così. Non è l’unica cosa in cui credere, a cui aggrapparsi, per cui combattere.

Nemmeno il sogno più grande, l’amore più forte, il pensiero più profondo valgono quei piccoli petali rossi che ti stai lasciando dietro. Perché non lo capisci? Perché? O forse l’hai capito già da tempo e non vuoi ammettere il tuo errore?

Non fidarti, ragazza! Peccato solo che tu non possa sentirmi, qui dalla tribuna. 

 

Lui mi ama. Me l’ha detto e io lo so. Resterò sempre con lui, perché siamo entrambi soli al mondo. Siamo una cosa sola.                                                                                                                                                                                                                                              Del resto, il fuoco sia scalda che brucia.

 

Ormai, ho visto quasi tutti gli atti dello spettacolo. È stato l’avvincente, commovente, inquietante accompagnamento delle mie serate a teatro. Come in qualsiasi opera che si rispetti, adesso vorrei soltanto vedere il finale.

Le luci si spengono, il sipario si apre. Maria è ritta in piedi, davanti a me.

Sta osservando in silenzio il soffitto. Una porta si apre, sbatte, entra di peso un uomo ubriaco, che principe azzurro non è. Ha gli occhi iniettati di sangue, un sorriso impazzito e la sta fissando. Inizia a insultarla, dice che sa tutto, sa che è uscita con un altro, sa che lo vuole lasciare…lei scuote la testa, silenziosa.

Non parla.

 Lui le ordina di dire qualcosa, lei sta zitta.

L’uomo impazzisce, non ci vede più, corre in cucina e prende un coltello.

Ma Maria non c’è più.

Mi ha allungato la mano, è scesa dal palco, a fatica.

Ma è scesa. 

L’ho sorretta, camminando fra le poltrone di velluto rosso.

Ci teniamo la mano, sorridendo dello stesso sorriso.

Lei getta uno sguardo indietro. 

Poi accende la luce.

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